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Se i social media nacquero con l’utopico obiettivo di congiungere i poli opposti del mondo, di mantenerci in contatto, con la consapevolezza che sì, forse avrebbero rivoluzionato di un poco la comunicazione fra individui, ma sicuramente non avrebbero creato un mezzo diverso di vivere la vita, una dimensione parallela, che si intromettesse in quella reale, oggi dobbiamo riconoscere queste fantasie come parziali realtà, cercare di circoscriverle, di accorgercene, per poi denunciarle, e restituire nuova dignità alla vita che si vive davvero.

Infatti i social media, da presenza marginale nella vita analitica, sono divenuti propaggine di quella stessa vita che oggi continua nell’Internet, che si espande a ogni campo. Oggi tutto ha la sua versione virtuale, ogni tipo di popolazione è potenzialmente un creator che condivida le sue opinioni sulla piazza digitale: i leoni da tastiera sono potenzialmente i nuovi, più radicali interpreti della democrazia diretta, in un esperimento di potere al popolo, che si esprime in forme e modi che nella vita di tutti i giorni non potrebbero mai essere possibili.

Da carta per lettere, Twitter si è fatto X, diventando vero e proprio anfiteatro: e come per ogni anfiteatro che si rispetti, anche il digitale è fatto da spettatori e gladiatori, fruitori e contenuti.

Potere agli spettatori, che si agitano sugli spalti! Loro, non toccati da nulla, osservano i fenomeni e le vite altrui, le passioni, e tutto ciò per cui gli altri si muovono (in questo consiste lo spioncino da cui si guarda l’Internet) con sazia apatia e gretta rabbia.

È in questa rivoluzione dei social media che si vanno diffondendo atteggiamenti come la desensibilizzazione degli individui e la polarizzazione morale. 

In primis, ci si riversano addosso così tante notizie di massacri, disastri climatici, tafferugli popolari, che in noi spettatori va confermandosi come definitiva una sfiducia totale per un mondo che “non può essere altro che così”, e in cui il compianto e lo spazio della morte e della tragedia vanno a mescolarsi con i contenuti dell’intrattenimento più becero, del prossimo reel, che strappa via l’impressione con un’amara risata, dilavandola.

In secondo luogo, se davanti alle grandi tragedie e a un’umanità e un’Italia che colano a picco restiamo gli stessi, se non più tetri, l’algoritmo dei social media sembra essere stato creato apposta per foraggiare il nostro coinvolgimento, coerentemente con una netta polarizzazione politica. Chi consuma contenuti circa un argomento, vedrà consigliatigli altri contenuti di un argomento simile: e dunque chi è di destra, verrà imboccato di contenuti che nutriranno questa convinzione in una dottrina; chi è di sinistra, verrà scandalizzato da pagine che postano contenuti di sola sinistra, rinforzando l’algoritmo in un ciclo vizioso.

La natura stessa dei commenti online, del “non metterci la faccia”, già predispone una certa aggressività prima menzionata, che viene poi radicalizzata dai contenuti brevi dei social media, necessariamente semplificati, superficiali, polarizzanti, perché non presuppongono del tempo sufficiente per sviluppare una conversazione costruttiva attraverso questi mezzi.

YouTube rappresenta un esempio di ciò in senso contrario: i video possono durare fino a svariati minuti, permettendo ai creator di affrontare diversi punti di vista e di scendere in profondità su di un argomento. Eppure il trend imperante di TikTok e Instagram, nonché la stessa funzione degli Shorts di YouTube, sono piuttosto eloquenti circa l’insufficienza e i limiti della comunicazione online.

In seguito, nella nostra analisi, non è da ignorare quanto, nell’addobbo che sono i social media oggi, la nostra attività digitale sia prerogativa della nostra attività umana. 

Recidersi dai social ci recide anche dal mondo attorno a noi, che, infatti, vive nei social, si esprime più liberamente nella cultura digitale, ha trovato nella cultura digitale un albergo e una prigione, una macchina vivifica, l’Iron lung dei Radiohead.

Essere schedati su Linkedin, poter disporre di una propria footprint digitale (meglio ancora se immacolata), ci apre molte porte nel mondo del lavoro; il nostro linguaggio generazionale è linguaggio dell’Internet (“Because the Internet” non avrebbe mai potuto essere pubblicato trent’anni fa); sottrarsi ai social ci sottrae a una miriade di notizie, agli aggiornamenti continui dei nostri creator preferiti, quasi amici digitali le cui opinioni trend-setter possono smuovere mari, manipolarci; per un musicista (meglio: artista) la presenza social è un altro strato che va ad aggiungersi alle prerogative del successo, oltre all’orecchiabilità, alla spensieratezza, alla brevità di un brano, e che sono suoi vincoli e lo separano dalla sua più sincera espressione di sé.

Lo abbiamo visto benissimo a Sanremo, che, da contest canoro, s’è fatto contest d’influenza.

Chi ha avuto successo, lo avrebbe avuto lo stesso se avesse contato sulle sole armi della sua musica, pura, esente da pressioni sociali, che si giudica da sola? La presenza dei cantanti sui social media non ha forse allargato sensibilmente lo spettro di chi li avrebbe potuti votare? Non hanno forse avuto un peso i post di Geolier, di Angelina Mango e di Ghali, dove si invitava il pubblico votante da casa a parteggiare per loro? 

Sanremo diventa dunque simbolo della competizione nostra nella società, competizione che presterà sempre più attenzione all’apparenza, e non alle facoltà; alla presentazione, alla divulgazione, non alla sostanza. La nostra esposizione digitale è dunque non solo parallela ma quasi uguale a quella reale, corporea.

Lasciare che un’altra dimensione, basata sulla quantità, sull’offerta, sull’involucro, predomini sulla nostra, e accettare questo stato come ormai ineluttabile non è solo triste, ma ci dice quanto le nostre società virali abbiano oggi poco cara la vita reale.

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